di Massimo Veltri
sul Quotidiano di oggi 16 marzo 2025 a pag. 10
Quando il parlamento italiano, le forze di maggioranza al governo in particolare, abbracciarono la svolta del federalismo regionalista lo fecero attraverso un percorso a tappe, ben cadenzato, partendo dai riferimenti internazionali più accreditati che avevano trovato una loro collocazione organica fin dentro il programma dell’Ulivo che nel 1996 aveva vinto le elezioni (grazie anche, è bene non dimenticarlo, al patto di desistenza con Rifondazione Comunista).
Era il 2001, a pochissimi giorni dallo scioglimento delle Camere, e in precedenza fra seminari di lavoro, convegni, riunioni e consultazioni che avevano coinvolto tutte le istanze periferiche dei partiti del centrosinistra per mesi senza nulla tacere o sottovalutare ognuno aveva avuto modo di obiettare, confutare, correggere l’impostazione che si era scelta per un nuovo ordine statuale potenzialmente e concretamente foriero di risultati fortemente distorcenti e penalizzanti per le regioni del sud e il paese nel suo complesso.
Ognuno avrebbe potuto, se solo si fosse presa la briga di leggere le poche righe che torcevano dettato e conseguenze del titolo V della Costituzione con un occhio scevro da condizionamenti e libero di obbedienza cieca a quanti avevano riscritto il patto di solidarietà e coesione dell’Italia. Non vigeva più il Centralismo Democratico, è vero, i partiti che avevano fondato la Repubblica non c’erano più, erano in piedi però organismi regionali e provinciali, anche nel mezzogiorno logicamente, che se pure avvisati, indotti, a dire la loro, e in più occasioni, nulla ebbero da eccepire invece su quanto si stava profilando all’orizzonte. Nè si percepì il se pur minimo segno di attenzione per la materia da parte dei membri delle assemblee elettive, regionali e nazionali, con le dovute per quanto singolarissime eccezioni, s’intende.
Si può parlare di disattenzione, di sottovalutazione, di delega in bianco nei riguardi di chi era nella stanza dei bottoni, non credo di consapevole adesione a un progetto scellerato, che premiava il nord sposando la Questione Settentrionale e umiliando il sud e il sistema Paese, ma per certo ciò non assolve nessuno né individualmente tantomeno in termini sistemici.
Cos’erano i comitati regionali, le direzioni provinciali: sedi di esercizio democratico di scelte ed elaborazioni, o piuttosto agenzie di ratifica di decisioni prese altrove e stanze di compensazione per scelte di candidature elettorale centellinate secondo il Cencelli pensiero? Semplicemente modelli funzionali alla difesa di uno schema che, di fatto era scritto, non avrebbe retto l’urto con i cambiamenti sconvolgenti ormai alle porte che avrebbero portato al populismo e al dissolvimento delle strutture portanti che reggevano l impalcatura democratica della repubblica, dato il via libera alla destra.
Ora la Questione Meridionale è relegata al più a un dibattito difensivo che ripropone antichi dualismi in chiave accusatoria e recriminatoria, autoflagellante se non accusatoria di dimenticanze e pregiudizi, di percezioni false di un sud che si vorrebbe cogliere nei suoi tratti essenziali ma si stenta a rinvenirli perché, semplicemente, non ci sono e se ci sono sono uno e cento e diecimila. Per molti aspetti eternamente uguali a sé stessi, per molti di più in continuo cambiamento ma nei quali la politica stenta assai a riconoscersi, ad essere interlocutore attivo, figurarsi regista o regolatore. Una miriade di esempi positivi, finanche virtuosi, in chiave imprenditoriale e privata, uno spontaneismo sorprendente accanto al sole, il cielo, il mare, grandi bellezze e vestigia di civiltà millenarie che fanno da pendolo alla sanità commissariata, allo scempio del territorio, all’esodo dei giovani.
È un mondo nuovo, quello che guardiamo, o si veste con abiti solo diversi, e lo si affronta con giaculatorie note o con piglio e strumenti adeguati?
Al di là di qualsivoglia armamentario retorico si voglia utilizzare è questo, qui ed ora, il quesito cui dare risposta, se se ne è capaci.