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I Limoni – di Eugenio Montale

Nella “Serata di Poesia” del 22 febbraio 2025 al Caffè Telesio

Lettura e commento di Marialuigia Campolongo

I limoni

di Eugenio Montale

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.


Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.

Commento di Marialuigia Campolongo

Difficile commentare “I Limoni” di Eugenio Montale, su cui sono state scritte, a giusta ragione, pagine e pagine; su cui non basterebbe un saggio per analizzarne stile, versi, struttura che sono solo in apparente contrasto con la tradizione metrica e la cui armonia è esemplare, pur nella scelta del verso libero.

Cercherò di comunicare soltanto ciò che a me regala, ogni qualvolta lo rileggo, questo testo poetico, , a mio avviso un vero capolavoro, racchiuso nella raccolta “Ossi di seppia”, che già dal primo verso si rivolge a me, a noi, uomini e donne comuni, con lo stile volutamente dimesso, che non va a scomodare piante da… poeti laureati. Linguaggio comune è infatti il suo, per descrivere la realtà della sua terra , la Liguria degli orti, dei fossi erbosi, le piccole strade ornate dalla comune pianta dei limoni che le rende odorose; percorrendo le quali le ansie quasi si placano per quella pace,  la mente si allontana dalle violente passioni della guerra; ed è  come se il profumo dei limoni riuscisse ad aprire uno spiraglio sul segreto delle cose, come  si potesse ad un tratto scoprire “il punto morto del mondo”, “l’anello che non tiene”; quasi ci fosse un filo che possa condurci a scoprire le verità metafisiche… Ma limitata è la conoscenza umana. E’ solo l’illusione che quegli spiragli di luce, i limoni, creano: subito essa si dissolve e, insieme, la speranza. Subentra il rumore delle città, mentre le cimase si vedono in lontananza interrompere l’azzurro del cielo, che si vede appena, a spicchi e la stanchezza dell’anima prevale, come quella della terra per la pioggia incessante: la noia dell’inverno subentra…

 “Quando un giorno da un malchiuso portone/ tra gli alberi di una corte/ci si mostrano i gialli dei limoni;/ e il gelo del cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni/ le trombe d’oro della solarità”.

Straordinaria immagine simbolica che reca con sé campi semantici di aria, acqua e luce che si intrecciano, come negli ultimi versi accade, con la scelta del verbo scrosciare, che è dell’acqua, ma apre ad una straordinaria sinestesia uditiva e visiva, perché sono le canzoni che scrosciano e le trombe d’oro della solarità. E’ come volesse stupirci, il poeta e stupirsi, quasi volesse parlare di una sorta di lavacro di luce, assolutamente purificatore, che possa ripulirci dalla sporcizia del mondo.

Canzone della Speranza, dunque, malgrado tutto, grazie alla quale il “gelo del cuore si sfa” e che ritengo attualissima, nella situazione mondiale che stiamo vivendo. Come poche altre forse riesce a mettere in luce la funzione purificatrice della poesia.

Dall’Adelchi di Alessandro Manzoni – Coro atto III

Nella “Serata di Poesia” del 22 febbraio 2025 al Caffè Telesio

Lettura e commento di Sara Serafini Calomino

Coro


Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,
dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l’orecchio, solleva la testa         
percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
qual raggio di sole da nuvoli folti,
traluce de’ padri la fiera virtù:
ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto         
si mesce e discorda lo spregio sofferto
col misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si sperde tremante
per torti sentieri, con passo vagante,
fra tema e desire, s’avanza e ristà;         

e adocchia e rimira scorata e confusa
de’ crudi signori la turba diffusa,
che fugge dai brandi, che sosta non ha.

Ansanti li vede, quai trepide fere,
irsuti per tema le fulve criniere,        
le note latebre del covo cercar;
e quivi, deposta l’usata minaccia,
le donne superbe, con pallida faccia,
i figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando,        
quai cani disciolti, correndo, frugando,
da ritta, da manca, guerrieri venir:
li vede, e rapito d’ignoto contento,
con l’agile speme precorre l’evento,
e sogna la fine del duro servir.         

Udite! quei forti che tengono il campo,
che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
son giunti da lunge, per aspri sentier:
sospeser le gioie dei prandi festosi,
assursero in fretta dai blandi riposi,         
chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciar nelle sale del tetto natio
le donne accorate, tornanti all’addio,
a preghi e consigli che il pianto troncò:
han carca la fronte de’ pesti cimieri,         
han poste le selle sui bruni corsieri,
volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,
cantando giulive canzoni di guerra,
ma i dolci castelli pensando nel cor:        
per valli petrose, per balzi dirotti,
vegliaron nell’arme le gelide notti,
membrando i fidati colloqui d’amor.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
per greppi senz’orma le corse affannose,        
il rigido impero, le fami durar:
si vider le lance calate sui petti,
a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
udiron le frecce fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti,         
sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
d’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
all’opere imbelli dell’arse officine,
ai solchi bagnati di servo sudor.         

Il forte si mesce col vinto nemico,
col novo signore rimane l’antico;
l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
si posano insieme sui campi cruenti        
d’un volgo disperso che nome non ha.

Commento di Sara Serafini Calomino

In occasione del Simposio culturale riservato agli autori e ai critici, organizzato dall’associazione “ I Tridici canali” presso il Caffè Telesio di Cosenza il 22.02.2025, ognuno dei partecipanti iscritti ha declamato testi poetici o passi scelti. L’incontro è stato preparato  sostenuto dal Presidente Prof. Francesco Calomino che ha accolto tutti con grande soddisfazione per la partecipazione dei convenuti.

Io, come testo, ho declamato il primo coro dell’Adelchi, tratto dal terzo atto della tragedia di Alessandro Manzoni. Ho fatto questa scelta per motivi sentimentali, ma forse perché all’improvviso mi sono risuonati nella mente i versi del coro manzoniano, pensando alla drammatica realtà di guerra che stiamo vivendo in questo  momento storico.

Nella tragedia “Adelchi”, infatti, Manzoni rievoca la calata dei Franchi di Carlo Magno, chiamato dal Papa Adriano nel 776 d.c. , sulla penisola italica per liberarla dall’occupazione longobarda che ormai dominava da più di due secoli sul territorio. Il coro lirico Manzoniano, in particolare, a differenza di quello della tragedia classica, rappresenta un fuoriscena, un angolo in cui l’autore riflette sulla funzione morale delle azioni umane, secondo il suo concetto dell’arte. E qui, appunto, Manzoni vede le genti italiche che, dopo secoli di servaggio e sottomissione, non hanno perduto completamente “l’antica virtu” della loro origine latina e romana, ma si ridestano da palazzi fatiscenti e piazze diroccate di fronte al rumore improvviso dei loro padroni che si disperdono impauriti per l’arrivo dei nuovi invasori. Ma se quelle genti italiche – dice Manzoni – sperano che i Franchi li possano liberare e porre fine alla condizione di servi o ridare loro quella dignità che hanno perduto dopo secoli di imbelle servaggio, si sbagliano, sono nel falso. I nuovi venuti che hanno lasciato le comodità e i piaceri delle loro case, e le proprie donne nell’angoscia, per affrontare le difficoltà di un percorso disagevole e i pericoli della guerra, non sono venuti per liberare un popolo straniero. “Quei forti”, dice Manzoni, vogliono una propria ricompensa: dominare anch’essi su una terra conquistata. “Il forte si mesce col vinto nemico, col novo signore rimane l’antico” su quelle genti che rimangono volgo e non hanno il nome di popolo. Qui il Manzoni, che ha scritto la tragedia nel 1822 in pieno romanticismo, con questa chiusa del coro allude alla condizione di schiavitù del popolo italiano con l’occupazione del Lombado-Veneto da parte dell’Austria dopo la restaurazione del 1815. Infatti questi versi , secondo lo spirito romantico patriottico del Manzoni sono una denuncia dell’inazione delle genti italiche che devono lottare per l’indipendenza e liberazione dallo straniero.

Il testo del coro è molto bello anche perché dal punto di vista metrico-linguistico mi ha dato la possibilità di seguire il ritmo incalzante del doppio senario che dà all’azione descritta un’immagine immediata della scena.

Infine, voglio ricordare come anche la figura di Adelchi, lacerata dal dolore e da una condizione di infelicità, corrisponda ai canoni del romanticismo manzoniano: la mondana potenza non è altro che vanità, destinata a dissolversi nel silenzio e tenebra, rispetto alla vita eterna e alla gloria di Dio.

Suonni – di Ciccio De Marco

Nella “Serata di Poesia” del 22 febbraio 2025 al Caffè Telesio

Lettura e Note di Antonio Martire

Suonni

di Ciccio De Marco

Intra sa neglia fitta, tinta e ‘mpusa

ca ‘mbolica Milanu paru paru

s’érramu core miu trove na scusa

ppe inchiare de suonni nu panaru.

Suonni duci sonnanti ‘ntataviglia,

‘ncutti, unu ‘nta l’atru, a lassa e piglia.

E viju, viju la Sila tutta quanta,

ccu li chiani, li cuozzi e li marelli,

‘u riscignuolu solitu chi canta

‘nta li pini conzati a sentinelli

de lu silenziu granne, granne, granne,

patrune e sutta de tutte le banne.

E viju lu mare, lu mare allegracore,

acqua lucente chi pare lavata

de l’unna, l’unna sua chi sbatte e more

supa li scuogli dintra a sbruffata.

‘A gente ricriata chi gallìa

sutt’u sule chi coce e spampinìa.

E viju lu cielu, lu cielu azzurru, vivu,

chjinu de luce, apiertu, granne granne

sup’a Calabria mia, cumu nu crivu

chi cerne l’aria e guala ci la spanna,

leggia, pulita, frisca, fina fina,

de la muntagna sinca alla marina.

E de sutta lu cielu, viju i paisi,

ohi benedica quanti, cchi abbunnanza,

su’ deci, cientu, mille paravisi

spasi allu sule, all’aria, alla speranza,

picculi e gruossi, tutti ju lle viju

o ogniunu chi me pare chillu miu.

Parranu tutti a nna vota, ‘ntra lu suonnu,

tutti ccu mia se vonnu liticare,

pare ca chiamû, pare ca me vuonnu,

pare ca gridû : -Lluocu, c’ ha de fare?

Se po’ sapire o no quannu la fruni

de jire appriessu i sordi puru tuni?

Cchi va trovannu? cchi te serva ancora?

Nun sì cuntientu? Duve sì arrivatu

de quannu sì vulutu jire fore

ca lu spaziu de cca nun t’è bastatu?

Va trova cchi poltrona o scrivania

ca t’hannu misu llà tutta ppe tia!

Va trova quanta gente chi t’adura

va trova quantu e cumu ti ricrìi

‘ntra su munnu chi cangia ura ppe ura

dintra a ssa fera, ‘ntra tutti ssi dii

ca ogni juornu li sordi, bonusia,

jettanu ccu lla pala ppe la via.

Dintra sa neglia ‘mpusa, fridda, scura

‘u fisc-cu ‘e na sirena s’abbicina

sempre cchiù forte, cumu la paura.

Piensu: – Cchid’è? N’infartu o na rapina?

‘U fisc-cu passa, s’alluntana, more

cumu lu suonnu miu dintr’a ssu core.

 Note biografiche su Ciccio De Marco – di Tonino Martire

Ciccio De Marco nacque a Perito, frazione di Pedace, oggi Casali del Manco, nel 1917 in una famiglia dove, per antica consuetudine, si respirava aria intrisa di cultura.

Compiuti gli studi classici presso il liceo “Telesio” di Cosenza, sceglie di non continuare gli studi e entra nel mondo del lavoro: questa scelta lo porta a trasferirsi a Milano, dove svolgerà il ruolo di cancelliere presso il tribunale cittadino.

Presto trova accoglienza e un suo spazio negli ambienti culturali della metropoli lombarda.

Nonostante ciò, l’amore per la sua terra ha sempre governato la sua mente e il suo cuore e spesso faceva sentire la sua voce mediante poesie e articoli pubblicati sulla rivista Iniziativa, fondata dal suo amico fraterno Ernesto Corigliano.

Nel 1963 pubblica una raccolta di versi in lingua italiana intitolata Bagliori e, nel 1983, il suo capolavoro: L’epistolario di Rosalbino.

A distanza di pochi anni dà alle stampe la raccolta di poesie in vernacolo Suonni, seguito poco dopo dal libretto Virgole.

Nel 2011 pubblica il romanzo Il mulo.

Pregevole è anche la sua produzione teatrale, portata sulla scena da diverse compagnie.

Tutta la sua produzione letteraria, che trae motivi e spunti dalla condizione umana nella vita sociale, è permeata da ironia bonaria e da sottile e arguta riflessione, tesa a provocare stupore e commozione.

Ciccio De marco finì i suoi giorni terreni a Milano, all’età di 96 anni.

‘E Cecate ‘e Caravaggio di Salvatore di Giacomo

Nella “Serata di Poesia” del 22 febbraio 2025 al Caffè Telesio

Lettura e commento di Ciccio De Rose

‘E cecate e Caravaggio

Salvatore Di Giacomo

– Dimme na cosa. T’allicuorde tu

‘e quacche faccia ca p’  ‘o munno e’ vista,

mo ca pe sempe nun ce vide cchiù?

– Si, m’allicordo; e tu? – No frato mio;

io so’ nato cecato. Accussì ‘ncielo

pe  mme murtificà, vulette Dio…

– Lassa sta’ Dio!… Quant’io ll’aggio priato,

frato, nun t’ ‘o può manco mmaggenà,

e Dio m’ha fatto addeventà cecato.

– È overo ca fa luce pe la via

‘o sole?… E comm’è ‘ sole? – ‘O sole è d’oro,

comme ‘e capille ‘e Sarrafina mia…

– Sarrafina?… E chi è? Nun vene maie?

Nun te vene a truvà? – Sì… quacche vota…

– E comm’è? Bella assaie? – Sì… bella assaie… –

Chillo ch’era cecato ‘a che nascette

suspiraie. Suspiraie pure chill’ato,

e ‘a faccia mmiez’ e mmane annascunnette.

Dicette ‘o primmo, doppo a nu mumente:

– Nun te lagnà, ca ‘e mammema carnale

io saccio ‘a voce… ‘a voce solamente… –

E se stettero zitte. E attorno a lloro

addurava ‘o ciardino, e ncielo ‘o sole

luceva, ‘o sole bello, ‘o sole d’oro…

Commento di Ciccio De Rose

Salvatore di Giacomo era nato il 13 marzo del 1860  , figlio di Francesco Saverio medico pediatra e di Patrizia Buongiorno insegnante di musica al Conservatorio S.Pietro a Maiella . Frequentò il liceo Vittorio Emanuele dove nel biennio 1876/1878 ebbe come insegnante di lettere il nostro Vincenzo Padula ( c’era tra i suoi alunni anche Nicola Zingarelli che diventerà un grande filologo ) e Padula lo aiutò nella stesura della sua prima novella “La Bellissima – Fantasia Medioevale “ . Si scrisse alla facoltà di medicina per seguire le orme paterne ma abbandonò l’Università perché scendendo una buia scala per accedere ad un pianterreno per la lezione di anatomia incrociò il bidello che portava un cassa di ossa di cadaveri che scivolando fece cadere il contenuto tra i suoi piedi . Terrorizzato per l’orribile visione scappò e non mise più piede in quella Università . Forse la scienza medica perse un valente medico , ma la letteratura , l’arte e la poesia ci guadagnarono e come !
Incominciò a scrivere e a pubblicare sul “ Corriere del Mattino “ e fu un periodo decisivo per lui perché ebbe modo di frequentare Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao che lo avvicinarono alla Napoli più verace e sofferta visitando luoghi anche di sofferenza e patimento.

Al poco giorno…di Dante Alighieri

Nella “Serata di Poesia” del 22 febbraio 2025 al Caffè Telesio

Lettura e commento di Maria Cristina Parise Martirano

Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra

di Dante Alighieri

Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra 

 son giunto, lasso!, ed al bianchir de’ colli, 

 quando si perde lo color ne l’erba; 

 e ’l mio disio però non cangia il verde, 

 si è barbato ne la dura petra 

 che parla e sente come fosse donna. 

 Similemente questa nova donna 

 si sta gelata come neve a l’ombra; 

 che non la move, se non come petra, 

 il dolce tempo che riscalda i colli 

 e che li fa tornar di bianco in verde 

perché li copre di fioretti e d’erba. 

Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,

trae de la mente nostra ogn’altra donna;

perché si mischia il crespo giallo e ’l verde

sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,

che m’ha serrato intra piccioli colli

più forte assai che la calcina petra.

La sua bellezza ha più vertù che petra,

e ’l colpo suo non può sanar per erba;

ch’io son fuggito per piani e per colli,

per potere scampar da cotal donna;

e dal suo lume non mi può far ombra

poggio né muro mai né fronda verde.

Io l’ho veduta già vestita a verde

sì fatta, ch’ella avrebbe messo in petra

l’amor ch’io porto pur a la sua ombra;

ond’io l’ho chesta in un bel prato d’erba

innamorata, com’anco fu donna,

e chiuso intorno d’altissimi colli.

Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli

prima che questo legno molle e verde

s’infiammi, come suol far bella donna,

di me; che mi torrei dormire in petra

tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,

sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.

Quandunque i colli fanno più nera ombra,

sotto un bel verde la giovane donna

la fa sparer, com’uom petra sott’erba.

Commento di Maria Cristina Parise Martirano

L’interesse di questa poesia AL POCO GIORNO E AL GRAN CERCHIO D’OMBRA,  CI delle RIME di Dante,  consiste in primo luogo nella metrica: si tratta di un particolare tipo di canzone: la sestina. La sestina fu usata, anzi inventata, dal trovatore Arnaut Daniel, esponente del trobar clus ( il poetare in modo difficile, chiuso) e Dante è il primo poeta italiano ad adoperarla; sarà poi largamente usata da Petrarca. E’ lo stesso Dante nel De Vulgari Eloquentia dove troviamo la teorizzazione della canzone a proclamare la derivazione della sua sestina Al poco giorno… da Arnaldo Daniello che lui ammirava  molto tanto, che è l’unico personaggio della Commedia che Dante fa parlare nella propria lingua, in questo caso la lingua d’oc . Dante lo pone tra i lussuriosi nel canto XXVI del Purgatorio dove di lui fa dire a Guido Guinizelli che egli considerava suo maestro  “fu miglior fabbro del parlar materno” (Purg., XXVI, 117). Praticamente bastava essere poeti d’amore perché Guinizzelli, Arnaldo e lui stesso, fossero considerati lussuriosi. Ma  prima, della sestina vediamo come è strutturata la canzone di cui la sestina  è  appunto una variante.

La canzone è una struttura poetica composta da un numero variabile di stanze (nella maggior parte, dalle cinque alle sette)  formate da versi endecasillabi o settenari ( nella poesia delle origini anche quinari, ). Ogni  stanza, poi, è divisa tra una fronte e una sirma. A sua volta la fronte è divisa in due piedie la sirma in due “volte”. A questa struttura segue aitualmente un “congedo” che è una stanza più breve. Questo è il modello di canzone che potremmo dire “classica” teorizzato prima da Dante nel De Vulgari Eloquentia e poi da Petrarca nei Rerum Vulgarium fragmenta . Dante, nel De Vulgari Eloquentia, considera la CANZONE come la forma poetica più alta.  della sua produzione   Infatti, dopo la Vita Nuova, nel periodo compreso tra lo sperimentalismo giovanile e la conclusione “comica” della maturità, userà poco il sonetto e pochissimo la ballata e anzi per dirla con il linguista Ignazio Baldelli ( in “Dante ed i poeti fiorentini del duecento”): dopo la Vita Nuova per più di 10 anni Dante è specialmente il poeta della canzone e il  De Vulgari corona questa lunga stagione lirica. Delle canzoni citate nel De Vulgari quattro sono del Convivio, due della Vita Nuova, ed una petrosa, che è, appunto,  la  nostra sestina, ricordata- dallo stesso Dante  -come un capriccio tecnico.

La sestina che fu iniziata, come ho già detto, da Arnaldo Daniello (detta anche sestina lirica per distinguerla dalla sestina narrativa o terza rima), è una variante della canzone ma rispetto alla canzone, obbedisce a regole molto più  artificiose e restrittive, che ne fanno il genere lirico tecnicamente più complesso della tradizione italiana. E’ formata da sei stanze ed ogni stanza da sei versi ( endecasillabi o settenari),  terminanti non con  semplici rime ma con parole-rima e rispetto allo schema della canzone l’ altra variazione consiste nel fatto che  la stanza non si divide come nella canzone.  Dante infatti nel De Vulgari eloquentia, parla della sestina nel secondo libro, capitolo 10, 2-3 ) a proposito della stanza senza diesis, cioè priva di distinzione fra fronte e sirma,  e dice:  : Huiusmodi stantia usus est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus:“Al poco jorno et al gran cerchio d’ombra”, cioè tradotto: siffatte stanze adoperò Arnaldo Daniello in ciascuna sua canzone e noi lo imitammo quando dicemmo “al poco giorno e al gran cerchio d’ombra”. Dopo Dante, Petrarca compose e raccolse nove sestine nei Rerum vulgarium fragmenta (XXII, XXX, LXVI, LXXX, CXXXXII, CCXIV, CCXXXVII, CCXXXIX, CCCXXXII) e la  presenza  della sestina nel Canzoniere ne fece un metro lirico molto imitato, in particolare dai petrarchisti, nel Quattro-Cinquecento (se ne incontrano anche in Leon Battista Alberti, nell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, negli Asolani di Pietro Bembo ).

Veniamo ora alla sestina di Dante Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra. Anch’essa è costituita da sei stanze di sei versi endecasillabi che terminano con le stesse sei parole-rima: ombra, colli, erba, verde, petra, donna,  di modo che cioè le sei parole-rima della prima stanza ritornano sempre e obbligatoriamente nelle cinque stanze successive secondo un artificioso principio di rotazione che nella trattatistica latina è definito retrogradatio cruciata  (o retrogradazione incrociata).  Dante nella sua sestina, rispetto ad Arnaldo Daniello apporta almeno due variazioni: le stanze di Arnaldo si avviano su un ottonario, mentre quelle della sestina dantesca sono tutte endecasillabi e, altra variazione, Dante aggiunge un congedo, cioè una stanza breve di tre versi dove ritroviamo tutte le sei parole-rima. Il filologo Claudio Giunta Ha osservato Praticamente : “ se la lirica è, per la mentalità moderna, il genere della libera espressione soggettiva, insofferente di costrizioni, la sestina è il contrario della lirica”. Ma, come diceva  Luca Serianni  “ è anche attraverso esperimenti come questo che Dante <<mostrò ciò che potea la lingua nostra>>, per applicare a lui le parole con cui Sordello saluta e celebra Virgilio ( Purgatorio, VII, 17). Quanto al contenuto, si tratta di una variazione sul tema della crudeltà e della straordinaria bellezza della donna che resta insensibile alla sofferenza dell’amante.  Quale che sia la stagione ( inverno nella prima strofa (stanza), primavera nella seconda), per lui non c’è speranza che il suo animo muti ( ultima strofa). La parola chiave è petra, a simboleggiare la durezza di cuore dell’amata. E’ questa  una  delle  quattro canzoni incentrate su una donna- pietra (che ben difficilmente  si può immaginare in carne e ossa), a cui è stato dato  il nome di “rime petrose” ,  tutte caratterizzate da uno spiccato sperimentalismo espressivo.

                                                 RIME, CI                                                           RETROGRADATIO CRUCIATA
  
   Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra                   A                              
       son giunto, lasso, ed al bianchir de’ colli,                                 B
       quando si perde lo color nell’erba:                                            C
       e ’l mio disio però non cangia il verde,                                     D
        sì è barbato nella dura petra                                                      E
       che parla e sente come fosse donna.                                          F


       Similemente questa nova donna                                                 F
       si sta gelata come neve a l’ombra;                                             A
        ché non la move, se non come petra,                                         E
       il dolce tempo che riscalda i colli,                                              B
       e che li fa tornar di bianco in verde                                            D
       perché li copre di fioretti e d’erba.                                             C


       Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,                             C
       trae de la mente nostra ogn’altra donna;                                    F
       perché si mischia il crespo giallo e ’l verde                              D
       sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,                                A
       che m’ha serrato intra piccioli colli                                           B
       più forte assai che la calcina petra.                                            E


       La sua bellezza ha più vertù che petra,                                      E

      e ’l colpo suo non può sanar per erba;                                        C
       ch’io son fuggito per piani e per colli,                                      B
       per potere scampar da cotal donna;                                           F
       e dal suo lume non mi può far ombra                                       A
       poggio né muro mai né fronda verde.                                       D


       Io l’ho veduta già vestita a verde,                                              D
       sì fatta ch’ella avrebbe messo in petra                                       E
       l’amor ch’io porto pur a la sua ombra:                                      A
       ond’io l’ho chesta in un bel prato d’erba,                                  C
       innamorata com’anco fu donna,                                                 F
      e chiuso intorno d’altissimi colli.                                                B

       Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli,                                           B
       prima che questo legno molle e verde                                         D
       s’infiammi, come suol far bella donna,                                       F
       di me; che mi torrei dormire in petra                                           E
        tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,                                    C
       sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.                                  A


       Quandunque i colli fanno più nera ombra,                            B       A
       sotto un bel verde la giovane donna                                      D       F
       la fa sparer, com’uom petra sott’erba.                                   E       C