Dall’Adelchi di Alessandro Manzoni – Coro atto III

Nella “Serata di Poesia” del 22 febbraio 2025 al Caffè Telesio

Lettura e commento di Sara Serafini Calomino

Coro


Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,
dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l’orecchio, solleva la testa         
percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
qual raggio di sole da nuvoli folti,
traluce de’ padri la fiera virtù:
ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto         
si mesce e discorda lo spregio sofferto
col misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si sperde tremante
per torti sentieri, con passo vagante,
fra tema e desire, s’avanza e ristà;         

e adocchia e rimira scorata e confusa
de’ crudi signori la turba diffusa,
che fugge dai brandi, che sosta non ha.

Ansanti li vede, quai trepide fere,
irsuti per tema le fulve criniere,        
le note latebre del covo cercar;
e quivi, deposta l’usata minaccia,
le donne superbe, con pallida faccia,
i figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando,        
quai cani disciolti, correndo, frugando,
da ritta, da manca, guerrieri venir:
li vede, e rapito d’ignoto contento,
con l’agile speme precorre l’evento,
e sogna la fine del duro servir.         

Udite! quei forti che tengono il campo,
che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
son giunti da lunge, per aspri sentier:
sospeser le gioie dei prandi festosi,
assursero in fretta dai blandi riposi,         
chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciar nelle sale del tetto natio
le donne accorate, tornanti all’addio,
a preghi e consigli che il pianto troncò:
han carca la fronte de’ pesti cimieri,         
han poste le selle sui bruni corsieri,
volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,
cantando giulive canzoni di guerra,
ma i dolci castelli pensando nel cor:        
per valli petrose, per balzi dirotti,
vegliaron nell’arme le gelide notti,
membrando i fidati colloqui d’amor.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
per greppi senz’orma le corse affannose,        
il rigido impero, le fami durar:
si vider le lance calate sui petti,
a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
udiron le frecce fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti,         
sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
d’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
all’opere imbelli dell’arse officine,
ai solchi bagnati di servo sudor.         

Il forte si mesce col vinto nemico,
col novo signore rimane l’antico;
l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
si posano insieme sui campi cruenti        
d’un volgo disperso che nome non ha.

Commento di Sara Serafini Calomino

In occasione del Simposio culturale riservato agli autori e ai critici, organizzato dall’associazione “ I Tridici canali” presso il Caffè Telesio di Cosenza il 22.02.2025, ognuno dei partecipanti iscritti ha declamato testi poetici o passi scelti. L’incontro è stato preparato  sostenuto dal Presidente Prof. Francesco Calomino che ha accolto tutti con grande soddisfazione per la partecipazione dei convenuti.

Io, come testo, ho declamato il primo coro dell’Adelchi, tratto dal terzo atto della tragedia di Alessandro Manzoni. Ho fatto questa scelta per motivi sentimentali, ma forse perché all’improvviso mi sono risuonati nella mente i versi del coro manzoniano, pensando alla drammatica realtà di guerra che stiamo vivendo in questo  momento storico.

Nella tragedia “Adelchi”, infatti, Manzoni rievoca la calata dei Franchi di Carlo Magno, chiamato dal Papa Adriano nel 776 d.c. , sulla penisola italica per liberarla dall’occupazione longobarda che ormai dominava da più di due secoli sul territorio. Il coro lirico Manzoniano, in particolare, a differenza di quello della tragedia classica, rappresenta un fuoriscena, un angolo in cui l’autore riflette sulla funzione morale delle azioni umane, secondo il suo concetto dell’arte. E qui, appunto, Manzoni vede le genti italiche che, dopo secoli di servaggio e sottomissione, non hanno perduto completamente “l’antica virtu” della loro origine latina e romana, ma si ridestano da palazzi fatiscenti e piazze diroccate di fronte al rumore improvviso dei loro padroni che si disperdono impauriti per l’arrivo dei nuovi invasori. Ma se quelle genti italiche – dice Manzoni – sperano che i Franchi li possano liberare e porre fine alla condizione di servi o ridare loro quella dignità che hanno perduto dopo secoli di imbelle servaggio, si sbagliano, sono nel falso. I nuovi venuti che hanno lasciato le comodità e i piaceri delle loro case, e le proprie donne nell’angoscia, per affrontare le difficoltà di un percorso disagevole e i pericoli della guerra, non sono venuti per liberare un popolo straniero. “Quei forti”, dice Manzoni, vogliono una propria ricompensa: dominare anch’essi su una terra conquistata. “Il forte si mesce col vinto nemico, col novo signore rimane l’antico” su quelle genti che rimangono volgo e non hanno il nome di popolo. Qui il Manzoni, che ha scritto la tragedia nel 1822 in pieno romanticismo, con questa chiusa del coro allude alla condizione di schiavitù del popolo italiano con l’occupazione del Lombado-Veneto da parte dell’Austria dopo la restaurazione del 1815. Infatti questi versi , secondo lo spirito romantico patriottico del Manzoni sono una denuncia dell’inazione delle genti italiche che devono lottare per l’indipendenza e liberazione dallo straniero.

Il testo del coro è molto bello anche perché dal punto di vista metrico-linguistico mi ha dato la possibilità di seguire il ritmo incalzante del doppio senario che dà all’azione descritta un’immagine immediata della scena.

Infine, voglio ricordare come anche la figura di Adelchi, lacerata dal dolore e da una condizione di infelicità, corrisponda ai canoni del romanticismo manzoniano: la mondana potenza non è altro che vanità, destinata a dissolversi nel silenzio e tenebra, rispetto alla vita eterna e alla gloria di Dio.